“Non sono mai stato un fan del cloud, ma non posso dire di essermi pentito della migrazione, del resto, abbiamo spostato poche applicazioni”. Possono essere riassunte con queste parole molte delle testimonianze dei CIO italiani sull’adozione del cloud computing. I manager della tecnologia sono molto realisti nel loro approccio alla “nuvola”, che spesso si declina caso per caso, anziché come una migrazione totale dall’IT ereditato (complessa e costosa). Il cloud-only viene considerata l’opzione ideale solo per le aziende in cui l’IT è il core business e la scalabilità la prima esigenza. Di cloud exit, però, poco si parla, al contrario di quanto sta accadendo, invece, negli Stati Uniti, dove si registrano alcuni casi di dietro front.
“Nel 2019 ho valutato un importante progetto cloud per l’azienda in cui lavoravo in quel momento, e che aveva l’esigenza di cambiare il data center e avere più storage. A conti fatti, passare tutto sul cloud (di tipo SaaS) avrebbe avuto costi alti sia di accesso che di mantenimento e non siamo andati avanti”, racconta Aniello Ranieri, IT Temporary Manager e membro del Direttivo del CIO Club Italia. “Anche la soluzione in casa, ovviamente, ha un costo, in particolare per le licenze e il consumo di energia, ma il cloud-only sarebbe stato più gravoso. L’opzione che abbiamo ritenuto più valida è stato un cloud ibrido, e credo che la maggior parte delle imprese adotti scelte analoghe”.
“Il costo del cloud è un problema e l’ho detto anche ai fornitori, ma io non tornerei indietro, perché il cloud semplifica la gestione dell’IT”, afferma Luca Caruso, CTO di Openjobmetis (agenzia per il lavoro). “Il problema spesso è nella scarsa chiarezza: gli strumenti dei vendor per calcolare i costi del cloud non sono user-friendly. È difficile fare una previsione di quanto alla fine si spenderà”.
Il cloud tra marketing e realtà
Per molti CIO italiani il cloud (come tante altre tecnologie, IA inclusa) è, in parte, un’operazione di marketing dei fornitori, ma non c’è un tema cloud exit per un semplice motivo: l’adozione spesso frammentata o parziale da parte delle imprese.
“Io non sono mai tornato indietro”, è l’esperienza di Lucio D’Accolti, CIO di Ama, il più grande operatore in Italia nella gestione integrata dei servizi ambientali. “Ma ho lavorato sempre su applicazioni cloud-ready, non sulla migrazione dalle architetture legacy. E comunque non ne abbiamo mai sfruttato al massimo le potenzialità”.
Il più recente Osservatorio Cloud Transformation della School of Management del Politecnico di Milano indica che, in media, nelle grandi imprese, il 51% delle applicazioni aziendali è sulla nuvola: un piccolo sorpasso rispetto all’on-premise, ma con tanti spazi di conquista che restano al cloud.
Le grandi imprese rappresentano anche l’87% dell’investimento, che è stato di 5,5 miliardi di euro nel 2023 (+19% rispetto al 2022). La componente Public Cloud & Hybrid Cloud ha accentrato una spesa di 3,7 miliardi, la parte più consistente, di cui IaaS e SaaS detengono più o meno quote simili (1,5 miliardi di euro), ma con ritmi di crescita diversi (rispettivamente +29% e +19%).
Ma, più che dai numeri, il panorama del cloud in Italia è meglio descritto dai trend: dopo aver affrontato l’adozione di applicazioni erogate in modalità SaaS o la migrazione di applicazioni già compatibili con il cloud, l’Osservatorio rileva che le imprese ora si stanno dedicando all’ammodernamento del parco applicativo legacy a supporto dei processi core e a un maggiore controllo della spesa. Proprio qui è il nodo: il 63% delle organizzazioni misura il contributo del cloud al business aziendale come risparmio sui costi e gestisce il cloud con le logiche dei sistemi on-prem, nonostante i modelli di pricing siano diversi. Ciò contribuisce a rendere difficile prevedere i budget, tanto da portare, in alcuni casi, a ridurre i servizi sulla nuvola.
“Ho vissuto gli anni dell’esplosione del cloud, quando si diceva che fosse la soluzione per tutto e che chi non lo adottava sbagliava”, commenta Marco Senigagliesi, direttore dei Servizi informatici di L.M. dei F.lli Monticelli (azienda del manufacturing, attiva nel settore degli accessori per serramenti, parte del Gruppo Montifin). “Il marketing dei vendor spingeva molto e alcune aziende, forse, hanno trascurato un’approfondita valutazione dei pro e contro del passaggio al cloud. Io sono sempre stato un po’ cauto. Sembrava che tutto l’on-prem dovesse sparire, ma poi ha prevalso l’hybrid cloud: molti CIO hanno preferito portare in cloud solo una parte dell’IT per osservare i risultati”.
Quanto è praticabile la cloud exit?
“Se un CIO pensa di aver sbagliato la scelta, ovviamente può tornare indietro”, risponde Senigagliesi. “Ma, a seconda del tipo di applicazione, il processo è più o meno complicato. Per esempio, tornare indietro da un prodotto di Unified communications and collaboration (anche se qui non vedo il motivo di lasciare il cloud) non è complesso, basta avere un server interno o una farm virtualizzata; se, invece, si riporta in casa un gestionale come l’ERP, occorrono tempo e risorse. Dipende anche dal tipo di cloud: per esempio, tornare indietro dal SaaS è più difficile rispetto allo IaaS, perché non c’è solo necessità di un software che dia lo stesso servizio, ma occorre l’infrastruttura e bisogna migrare processi, flussi e dati”.
Ciò non toglie che qualche caso (parziale) esista.
“Non ho esperienza diretta di una cloud exit, ma conosco colleghi che hanno riportato on-premise alcune applicazioni, perché nel tempo i costi sono diventati troppo alti”, afferma Ranieri. “In casa si tende ad avere sempre infrastrutture sovradimensionate per cui, se l’azienda cresce, si riescono ad assorbire i costi con l’infrastruttura presente (a meno di un boom sensazionale del business). Al contrario, con il cloud ogni nuova esigenza IT diventa una richiesta in più di risorse che si traduce in un aumento della spesa. Un caso tipico sono gli ERP, che rappresentano uno dei prodotti più spesso riportati in casa. Anche i MES spesso restano o tornano on-premise: elaborano dati di produzione a bassa latenza quasi real-time e il cloud non è giustificato, anzi, pesa sui conti”.
Bisogna, quindi, distinguere tra gli utilizzi del servizio cloud. Ranieri riferisce di aver lavorato in aziende manifatturiere, dove la tendenza è portare all’esterno solo i processi non critici: in questo modo, anche se il cloud ha un disservizio, non ci sono impatti per l’operatività. I processi mission-critical, invece, solitamente si lasciano on-prem: chi fa produzione ha bisogno di macchine locali per garantire la business continuity.
“Per me la soluzione migliore è avere un private cloud in casa con due-tre punti di disaster recovery per gestire le emergenze e cloud pubblici per servizi non business-critical”, afferma Ranieri.
Anche i vendor hanno compreso che la formula ibrida è quella più accettabile per le aziende che hanno una forte componente di IT legacy, mentre alle imprese che partono da zero è molto più facile vendere il cloud-only.
“La migrazione vera e propria dall’IT ereditato è onerosa ed è qui che si può arrivare al passo indietro, perché non si riesce a calcolare il Total Cost of Ownership (TCO)”, osserva D’Accolti di AMA. “È più comodo lavorare su prodotti cloud-ready, che danno grande flessibilità. Da questi difficilmente si torna indietro, perché non ci si deve preoccupare più di backup, disaster recovery, versioning e così via”.
Anzi, proprio ora con l’adozione dell’IA, il cloud appare ai CIO più che mai necessario nelle imprese che applicano l’intelligenza artificiale a un processo core, perché offre l’infrastruttura di supporto e la scalabilità. Diverso è se l’IA rappresenta il core business aziendale: allora è giustificato tenere i sistemi in casa, perché c’è più controllo e sicurezza sui dati.
Il cloud “ideale” per i CIO
Sicuramente il problema più sentito dai manager dell’IT è che, nel cloud, tutto è Opex o costo di esercizio, che impatta sull’Ebidta ed è altamente variabile. Per questo è necessaria una “cultura del cloud”: le persone devono sapere che, quando usano un servizio nella nuvola, stanno facendo crescere i costi dell’azienda. Ma come potrebbe evolvere il servizio dei vendor per rendere più semplice la gestione ai CIO?
L’abbassamento dei costi è in cima ai desiderata: “Il costo per risorsa è ancora alto”, evidenzia Ranieri, e in Europa, con l’aumento dei prezzi dell’energia, cresce sempre di più. Del resto, “fuori dall’UE non si può andare per via delle regole sulla privacy e la sovranità del dato”.
Un’altra richiesta è quella di una “interoperabilità tra i vari cloud provider, con un minimo dispendio di risorse operative, rendendo così i trasferimenti meno dispendiosi in termini di tempo”, prosegue Ranieri.
Per D’Accolti, “quello che resta problematico è una sorta di vendor lock-in del cloud: i fornitori hanno un’offerta as-a-service sempre più completa, e questo lega il cliente in un ecosistema da cui è difficile uscire”.
D’Accolti, però, evidenzia come, sia in AMA sia nella sua precedente esperienza lavorativa in Ferrovie dello Stato, l’adozione del cloud è stata parziale, quasi un “on-prem in cloud” o outsourcing, che dà all’IT una flessibilità negoziale a priori. “Io chiedo al data center una potenza elaborativa con un certo servizio, ma non è cloud. Costa di più, ma non ho sorprese sui costi”, afferma il manager.
Il futuro: XaaS ed edge computing
Molte aziende seguono questa strada che rappresenta un “cloud a metà”. Ma per altre il SaaS è una scelta perfetta: tutto dipende da qual è l’attività aziendale.
Per Caruso di Openjobmetis, il “tutto as a service” (XaaS) è l’opzione più desiderabile: “Per noi che non abbiamo il core business nell’IT, l’ideale è avere ogni applicativo come servizio, perché l’infrastruttura è una commodity, il cui impegno non rappresenta un valore aggiunto. Pensiamo a prodotti come Salesforce, disegnato per il cloud, ma anche a un’applicazione custom fatta in casa: per me la soluzione più conveniente sarebbe avere il progetto chiavi in mano in cui il software è dell’azienda, ma erogato in cloud come servizio”.
Questo aiuta anche a risolvere l’annoso problema dello skill shortage: “Avere un team che copra tutte le parti dell’IT – sicurezza, infrastruttura, networking, eccetera – è difficile, attrarre e trattenere i talenti è complicato. Il cloud risolve il problema e lascia a me la parte core del lavoro, che è la relazione con le funzioni del business”, dichiara Caruso.
David Linthicum, ex Chief Cloud Strategy Officer di Deloitte, ha affermato che, dopo anni di esperienza accumulata nella “nuvola”, molti CIO stanno ripensando il loro approccio, concentrandosi sulla specifica applicazione o carico di lavoro, e il trend è verso un’infrastruttura ibrida che combina on-premise, cloud e multicloud, hosting, servizi gestiti ed edge.
“In futuro andremo sempre più verso una combinazione di scelte tecnologiche”, conferma Giovanni Sannino, Head of Operations IT &Services di Sirti Digital Solutions. “Già oggi vediamo le aziende spostarsi verso opzioni distinte a seconda dei carichi di lavoro e della criticità delle operazioni. I CIO impiegheranno, quando possibile, dispositivi sull’edge che, grazie a microchip sempre più piccoli, veloci e con grandi capacità di calcolo, permettono l’elaborazione sul posto e in tempo reale, tenendo i dati in casa, mentre per altre operazioni saranno combinati il cloud e l’on-prem”.
Un’azienda manifatturiera, per esempio, che ha sensori IoT che generano e inviano tanti dati ambientali – temperatura, umidità, consumo di energia, e via discorrendo – ha convenienza a elaborare le informazioni all’edge, dove l’evoluzione dei microchip già permette di incorporare applicazioni di analytics e machine learning; poi passerà su cloud o on-prem solo le informazioni che serve centralizzare o che hanno necessità generali di elaborazione e storage.
“Questo nell’industria è un trend già in atto”, afferma Sannino, “perché permette di mantenere l’efficacia sulla linea di produzione, ma con macchine locali, senza software su cloud e infrastrutture pesanti che costano di più e non consentono la stessa velocità nel controllo di qualità e nelle azioni correttive”.
Ovviamente tutto questo aumenta la complessità per il CIO, perché i paradigmi tecnologici sono tanti e diversi, e il manager dell’IT dovrà avere le competenze per gestire un’infrastruttura composita. Ma potrà dare al business molto più valore.
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